Intervento
di Mario Giaccone, vicepresidente Fondazione Cesare Pozzo, alla Giornata
di studio della mutualità il 21 ottobre 2018 a Monselice, convegno “Cosa
facciamo da grandi?”, in occasione del 150 anni della Società operaia di
Mutuo Soccorso di Monselice
Il
ruolo sociale delle società di mutuo soccorso
ruolo sociale delle società di mutuo soccorso
Introduzione
Ringrazio dell’invito a questo evento della SOMS di
Monselice. I suoi 150 sono un fatto straordinario in una terra di confine fra
la subcultura bianca del Veneto centrale e la subcultura rossa del Polesine. Questo
mi permette di fare alcune riflessioni sul rapporto fra logiche solidaristiche
e strutture sociali, in particolare con riferimento al cosiddetto “modello
veneto”.
Nella mia relazione mi propongo due obiettivi: il primo è
comprendere la straordinarietà dei 150 anni della SOMS di Monselice,
inquadrandola nella società veneta e nel quadro istituzionale italiano, il
secondo è proporre una prospettiva per l’azione del mutuo soccorso su scala
nazionale.
Nel far questo, mi muoverò nella mia riflessione sulle
strutture sociali lungo la freccia della storia, come ha fatto prima di me
Stefano Maggi, individuando tre snodi chiave: il retroterra sociale e i modelli
di società nella fase di nascita e diffusione delle Soms, e cioè una società
agricola di industrializzazione nascente; l’affermazione della società
industriale di massa in Italia nel secolo scorso, dando luogo a una specifica
forma del compromesso keynesiano-fordista; infine quale potrà essere la società
che si sta profilando per i prossimi decenni.
Parto da una premessa che ritengo fondamentale sulla matrice
organizzativa fondamentale delle società di mutuo soccorso e delle loro logiche
di azione che permane ancora forte oggi. Le SMS sono prima di tutto
associazioni, quindi una forma di organizzazione sociale, che svolgono
un’attività avente contenuto economico quale è la gestione del rischio
maneggiando denaro a beneficio dei soci e dei loro famigliari, in particolare a
fronte di eventi che l’esperienza faceva vivere come catastrofici, in
particolare quelli legati alla salute. Questo avveniva, e avviene, secondo
logiche diverse rispetto alle organizzazioni che gestiscono i rischi secondo
una logica economica, e cioè le assicurazioni, le quali gestiscono il rischio
raccogliendo e analizzando informazioni, e discriminando le persone e gli
eventi in base alle classi di rischio: questo fa delle assicurazioni un
soggetto finanziario ancora più raffinato della banca per l’ampiezza delle
situazioni e dell’orizzonte temporale considerato. Viceversa, nelle SOMS
l’azione economica viene governata inseparabilmente dall’azione sociale, in
quando il principio fondante della solidarietà non è mai disgiunto da quello
della fiducia “ben riposta”: il che richiede da parte dei soci conoscenza in
senso lato, e cioè istruzione, conoscenza delle persone e conoscenze
tecnico-specialistiche per prendere le decisioni, e il rispetto di regole e
comportamenti moralmente e socialmente corretti, come ad esempio le clausole in
materia di ubriachezza o risse che non danno luogo al riconoscimento dei
sussidi di cui abbondano gli statuti.
Il retroterra alla nascita
Com’è noto, possiamo ritrovare questo nesso fra solidarietà
e fiducia “ben riposta” ben prima dell’emergere della società industriale, ma sono
la forma organizzativa su cui si sono imperniati i liberi comuni dell’Italia
medievale, alla base di quelle “tradizioni civiche” individuate da un grande
studioso come Putnam come la risorsa chiave che, mantenutasi e non aggredita
dal tempo, è alla base delle divergenze nello sviluppo dell’Italia unita e su
cui si è sviluppato l’occidente capitalistico. Chiamate corporazioni in Italia
o gilde nel Nord Europa, si trattava in primo luogo associazioni
solidaristiche, tipicamente di mestiere, per fronteggiare rischi catastrofici,
soggetti regolatori del mercato del lavoro in quanto davano la qualifica di
maestro artigiano a chi dimostrava di aver acquisito l’arte, e che si sono
presto trasformate in soggetti politici diventando soggetti di rappresentanza
politica. In paesi come la Germania non sono mai scomparse e svolgono un ruolo
cruciale nella riproduzione delle professioni artigiane, dando un contributo
decisivo alla potenza economica tedesca. Senza tema di esagerare, possiamo dire
che la corporazione è stato un soggetto promotore di istituzioni democratiche.
Questo carattere di mestiere lo ritroviamo nella nascita
delle SOMS. In quanto associazione, le SOMS introdussero un legame sociale di
natura specifica rispetto ai rischi sociali generati dalla rivoluzione
industriale e furono una risposta intenzionale di un contesto tipicamente ma
non esclusivamente urbano, promosso tipicamente ma non esclusivamente da
lavoratori in possesso di un mestiere
per i quali le risorse solidaristiche della famiglia e delle istituzioni
di beneficienza laiche ed ecclesiastiche erano inadeguate a fronte dei rischi
generati dalle lacerazioni e dai cambiamenti in atto: nel primo ambito perché
l’assenza o insufficienza di terre di proprietà o prese in conduzione non
assicurava la sussistenza in caso di eventi imprevisti, nel secondo perché la
beneficienza interveniva dopo, a catastrofe avvenuta e consumata.
Nella ricerca di sicurezza in tempi incerti, la
sopravvivenza di attività agricola, anche negli interstizi delle metropoli, era
una sorta di autoassicurazione per chi non era operaio di mestiere o artigiano:
ma era una risorsa a cui non tutti avevano accesso. Nelle aree urbane, gli
operai di mestiere e gli artigiani avevano una certa continuità di lavoro e
quindi di reddito per le loro famiglie: per loro era la salute il problema
chiave.
Queste cose sono ben note. Ma proviamo a calarle nella
realtà veneta, dove la famiglia era un’istituzione molto più strutturata e
potente in un contesto regolativo altamente destrutturato: il contratto di
mezzadria era annuale e sulla parola, a differenza della Toscana ad esempio,
mentre il collante e la dimensione della famiglia allargata erano decisive per accedere
a fondi migliori e più grandi. La capacità di fronteggiare i grandi rischi in
forma solidaristica era pertanto internalizzata nella logica del clan della
famiglia allargata, che ritroviamo alla base del miracolo economico del nordest
e come regola di governo delle imprese: in questa struttura così ampia
l’inabilità al lavoro per malattia di un membro, come si è detto, era assorbita
dalla capacità lavorativa degli altri membri, in grado di assicurare la
sussistenza per tutti i membri. Appare evidente come la solidarietà al di fuori
della famiglia era residuale e delegata ad istituzioni specializzate per chi ne
stava fuori, in primis la Chiesa, intervenendo ex post
Al contrario, nelle altre regioni del centro-nord la scelta
individuale in materia di autotutela e solidarietà era decisiva perché c’era
una probabilità ragionevole di poterne beneficiare. Se confronto il contesto
veneto, dove abbiamo una trentina di SOMS attive, con la mia zona d’origine, la
provincia di Alessandria, che annovera almeno un centinaio di SOMS anche di
contadini pur essendo di dimensioni molto più ridotte ed è stata a lungo un’area
prevalentemente rurale, si può identificare nelle caratteristiche della
famiglia la variabile chiave per spiegare questa diversità di comportamenti
nella protezione sociale: se non era raro sentire di famiglie contadine venete
fra le due guerre con almeno 5-6 figli, e punte oltre i 10, e famiglie
allargate con 60-70 membri sotto lo stesso tetto, in Piemonte le famiglie dei
piccoli proprietari (“i particolari” come diciamo in dialetto) a conduzione
diretta contavano di norma 2-3 figli, mentre quelle con 5-6 rappresentavano le
anomalie. La vita sociale dei paesi dava uno spazio significativo a circoli,
associazioni e società di mutuo soccorso, anche a prescindere dalla vicinanza
alle aree industrializzate.
Questo
per non parlare delle città industriali grandi e piccole, dove il bisogno di
aggregazione, costruzione di identità collettiva e di protezione sociale erano
talmente forti da far risorgere in pochi decenni le associazioni solidaristiche
abolite in gran parte d’Europa dai governi borghesi.
Mutuo soccorso e Welfare state nella società industriale
Vengo ora alla solidarietà nella società dell’industria di
massa, in cui gran parte di noi è cresciuto, limitandomi a due riflessioni.
Innanzi tutto, anche l’evoluzione delle organizzazioni
solidaristiche su base associativa appare governata dalla specializzazione e dalla
divisione del lavoro espressione della rivoluzione industriale, e che ad essa
sopravvive: per questo il mutuo soccorso ha sì incubato al loro interno forme
di rappresentanza sindacale, politica e di attività imprenditoriale, oltre che
di gestione del tempo libero, ma queste non sono rimaste al suo interno come
nella corporazione medievale e si sono presto distaccate ed autonomizzate, fino
a diventare delle popolazioni organizzative peculiari – i sindacati
confederali, i partiti di massa, le cooperative che nelle loro nozione estesa includono
le banche popolari e le casse rurali e artigiane ad esempio – tutte fondate su
un principio democratico e sulle persone, non sui capitali apportati.
Parallelamente all’emergere di un argine solidaristico al
libero mercato, è emerso il ruolo dello stato non più solo “minimo” e
“regolatore”, ma interventista nel senso di regolatore delle protezioni sociali
ed erogatore di servizi di pubblica utilità e di solidarietà a causa dei
fallimenti del mercato, ben illustrato da Polanyi: in Italia fu un processo
particolarmente vivace a livello locale, il cosiddetto “socialismo municipale” con
una forte interazione con le diverse forme organizzative nate dal mutuo
soccorso. In gran parte d’Europa e negli USA, accanto all’intervento pubblico in
qualità di regolatore e di produttore, una parte di queste market failures
erano state occupate dalle cooperative e dalle mutue assicuratrici, strutturando
una società civile forte, dove il bilanciamento dei poteri nella sfera pubblica
fra imprese profit e organizzazioni a statuto democratico hanno consentito un
avanzamento della democrazia con crescenti iniezioni di socialismo sotto forma
di riduzione delle diseguaglianze, come evidenziato da Schumpeter: una nozione,
quella di società civile, introdotta da Benedetto Croce ma diventata famosa con
l’elaborazione di Gramsci.
L’Italia rappresenta una peculiarità, come siamo abituati a
pensare, dove il ritardo non è solo nell’industrializzazione ma anche nella
strutturazione di questa società civile urbana, a cui concorrono altri fattori
istituzionali e sociali che qui tralascio: SOMS e cooperative, anche nel
credito, erano soggetti forti ma solo in determinati territori, ma la domanda
di protezione dal rischio era particolarmente modesta, fatto tipico di una
società rurale di sussistenza con un forte ruolo della famiglia-clan, pertanto
non era emersa una market failure altrove coperta dalla mutualità, tanto
associativa quanto assicurativa. Questo vuole anche dire che in ampie zone
d’Italia non si era radicata una cultura della solidarietà responsabile e della
necessità di proteggersi dai grandi rischi che travalicasse il perimetro della
famiglia, magari allargata.
Pertanto, quando con il fascismo si diffondono forme di
mutualità obbligatoria per il lavoro organizzato, il consenso alla protezione
sociale non è frutto da una transizione da una scelta diffusa di responsabilità
a una protezione universale, frutto di una scelta collettiva, che vede come una
conquista il fatto che il “soldino” non viene più (o più soltanto) messo nella
società di mutuo soccorso ma va nelle casse dello Stato per proteggere tutti, ma
rimane nel solco della elargizione non più delle beneficienza privata o
ecclesiastica ma statale, della mutua come privilegio e cosa di cui
approfittare. Non a caso, nel panorama europeo non si trova un analogo
squilibrio storico in favore dello stato nelle forme di previdenza ed
assistenza sociale: l’intervento pubblico in Italia deve privilegiare le cose
più urgenti, la mutualizzazione dei grandi rischi dell’inabilità al lavoro
(vecchiaia inclusa) e della malattia – le libertà negative – rispetto alle
libertà positive della formazione, dell’inclusione dei soggetti svantaggiati, e
della vecchiaia delle relative cure come questione privata della famiglia.
Questo fa emergere il nodo cruciale della società
civile italiana, dove il “capitale sociale” è frutto di tradizioni civiche
sedimentatisi in quasi un millennio di storia, come dice Putnam, con il
contributo decisivo, aggiungiamo come studiosi facenti parte del mutuo
soccorso, della solidarietà associativa, ma che viene visto da tutte le
politiche di sviluppo come un “processo spontaneo”: ed è lo spontaneismo la
sigla sotto cui il Censis, a differenza di Bagnasco e Trigilia ad esempio, si
spiega la straordinaria performance economica dell’economia periferica della
“Terza Italia”. I partiti di massa si erano dati un’importante missione civica
nel secondo dopoguerra, ma polarizzando la società italiana sotto la loro
egida, tant’è che alla loro scomparsa non è rimasto nulla: le società di mutuo
soccorso sono state tenute ai margini di un processo che passava per la
decisione politica perché lo stato sociale era visto come elargizione e non
conquista, tant’è che di fronte al ritiro dello Stato dal welfare state hanno
potuto oggettivamente fare ben poco, per la radicata convinzione che fossero
una popolazione organizzativa arcaica ed obsoleta, sopravanzata da altre
popolazioni organizzative più efficienti, strutturate come società di capitali.
La situazione odierna, all’alba della società informatica
Oggi ci troviamo a un deciso cambio di paradigma: sociale,
produttivo e territoriale. La rivoluzione informatica ha congiunto i vari punti
dell’innovazione puntuale degli scorsi 60 anni, portandoci verso una
interazioni sempre più virtuali e beni sempre più immateriali: ma questo era
già immaginato dai mitici laboratori Bell nel 1960, dove la sola inesattezza
nello scenario era il medium, non il terminale di un megacomputer (”il
cervellone”) ma il telefono portatile. L’economia di piattaforma, nota anche
come share economy o gig economy, sta generando nuove servitù con l’obbligo di
essere sempre a disposizione alla chiamata, pena la retrocessione da parte
dell’algoritmo, se si pensa a cosa vuol dire lavorare per Uber o per Foodora: è
questo un primo tratto di ritorno alla relazione feudale, ben più potente e
sostanziale della logica di clan della fase cosiddetta “postfordista”,
simboleggiata dal modello giapponese e da quello veneto. Ma sta avanzando,
portata avanti dal californian consensus, l’ideologia anarco-liberista che
permea la gig economy, una diversa nozione di lavoro comandato: dove il
comando, e la relativa estrazione del plusvalore, non è più legittimato
dall’acquisto in anticipo dei servizi del fattore lavoro (o lavoro vivo,
direbbe Marx) ma da una relazione di dipendenza tout court dalla piattaforma,
che remunera ex post a prestazione, la cui arma per trattenere le persone è il
timore del downgrade e dell’esclusione. Non sto ad addentrarmi al dibattito,
ricchissimo e interessantissimo, che ha portato all’avanzare di giurisprudenza
contraria in giro per Europa e USA.
Quello che oggi è certo è che il lavoro è sempre più incerto
e disperso, tanto che le grandi organizzazioni erogatrici di servizi spingono
per il telelavoro ed esplode il lavoro mobile: ma la dispersione ha prodotto
solo solitudine e disgregazione sociale. In questa trasformazione epocale, acquisisce
pieno senso il concetto di salute promosso dalla OMS intesa non più come “assenza
di malattia”, ma come “stato di benessere”, di fronte all’esplosione della depressione
e delle malattie mentali frutto del progressivo smantellamento del welfare
state nel quale siamo cresciuti. Ma al tempo stesso, dalla padronanza delle
tecnologie informatiche applicate ai mestieri e alle professioni tradizionali,
manuali ed intellettuali, sta emergendo un nuovo artigianalesimo che si prevede
genererà migliaia di nuove professioni ad oggi sconosciute in pochissimi anni:
una polarizzazione del modo di lavorare fra “corrosione del carattere” e
“l’artigiano” a tutto tondo, per adottare i titoli originari di quello che
probabilmente è oggi il lettore più compiuto e coerente della trasformazione in
corso del lavoro, Richard Sennet. Dispersione e precarizzazione sono l’“uovo
del serpente” della nostra epoca, a dirla con un film di Bergman, purtroppo
poco apprezzato, sulla nascita del nazismo.
Spesso il neo-artigiano può vivere una situazione di
dipendenza dalla piattaforma, che costituisce anche per lui – non solo per il
tassista o il food deliverer – il principale datore di lavoro o committente.
Tanto il neo-artigiano quanto il neo-servo lavorano in linea di principio da
soli, ma entrambi hanno bisogno di luoghi di incontro e di ritrovo, non nel
tempo libero ma per sviluppare il loro lavoro: non a caso hanno un successo
enorme gli spazi di coworking, specie nelle grandi città, dove affittare una
scrivania non serve per la postazione informatica connessa, garantita dalle
tecnologie mobili, ma per le opportunità di incontro e di scambio con persone
simili come condizioni professionali e diversi per competenze e settori di
lavoro, fino alla creazione – così vuole una certa retorica –di un cloud
imprenditoriale, che altro non è che un nuovo modo per dire distretto
industriale o nascita di nuove intraprese più o meno liquide da collaborazioni
più o meno occasionali.
Segnali di reazione: rifondare la solidarietà
Allora ecco che lo spazio condiviso è il luogo in cui è
possibile costruire relazioni stabili, lavorativamente e socialmente parlando, ricostruire
uno spazio di aggregazione, al quale accedere a pagamento, cosa che per noi, abituati
a considerare il fatto sociale come tempo per sé, costituisce un’aberrazione
figlia dell’attuale disgregazione sociale. Questa funzione oggi viene svolta,
in qualche caso, dalle associazioni di rappresentanza della piccolissima
impresa, come gli artigiani, dove dal confronto fra soggetti eterogenei nasce
una nuova forma di solidarietà, non più di tipo meccanico fra eguali come era
stata con le prime SOMS di mestiere prima e con le organizzazioni di classe
poi, né di tipo organico, derivante da una scelta intenzionale di essere
solidali come valore personale, come nello scorcio finale del secolo scorso
dopo la sconfitta fra fine anni’70 e primi anni ’80 ben colta fra i soci della
“Cesare Pozzo” da Draghi e Natale, ma solidarietà
riflessiva fra diversi, fra persone professionisti e imprenditori in bilico
fra autorealizzazione neo-artigiana e dipendenza neofeudale, che dal confronto
fra le diverse esperienze apprendono e si scambiano soluzioni e creando
occasioni.
Non dimentichiamoci che siamo nella società della
specializzazione, ma al tempo stesso è anche società della contaminazione. Non
solo dal punto di vista etnico, suscitando l’orrore di chi in nome della
purezza agita i fantasmi di un passato totalitario e totalizzante, ma
soprattutto culturale e professionale. Le associazioni di rappresentanza degli
interessi possono incorporare logiche solidaristiche nella loro azione e nella
loro identità, emergono luoghi di contaminazione professionale ed educativa
come i fablab, dove detentori di vecchi e nuovi specialismi scuola e lavoro
possono trovare un terreno di ricomposizione di un conflitto sempre più
distruttivo, il crowdsourcing diventa un modo per sostenere forme di
solidarietà come abbiamo visto a Lodi e Riace.
Risorse e opportunità del mutuo soccorso
Anche le SMS possono già da oggi offrire la loro forma di
contaminazione. La loro attività storicamente consolidata è la salute: ma come
ripercorso oggi, “salute” non è assenza di malattia, è stato di benessere della
persona, uomo e donna, nella sua dimensione bio-psico-sociale, e che va
supportata in tutte queste tre dimensioni. La forza del mutuo soccorso è che,
al di fuori del complesso e pertanto burocratizzato mondo a compartimenti stagni
della sanità pubblica, è l’unico soggetto che può dare risposta alle persone su
tutte e tre le dimensioni: e questo è nel suo imprinting genetico, che ogni
SOMS, a seconda della sua dimensione e storia, ha declinato in forme sue
particolari. Mi preme sottolineare questo fatto, perché di questa sua
eccezionalità non ne è ancora consapevole, pur praticandola quotidianamente.
A questo scopo mi basta fare l’esempio della Cesare Pozzo,
che si fregia di essere una SMS Nazionale, e pertanto ha particolari difficoltà
a percepire la propria dimensione intrinsecamente sociale: il 15% delle
prestazioni erogate sono esplicitamente di carattere sociale, quale indennizzo
alla madre che si assenta dal lavoro per malattia del figlio e come sussidio
allo studio; nel campo delle risorse non restituite ai soci sotto forma di
rimborso ci sono le attività di diffusione e conoscenza di fenomeni con serie
ricadute sulla salute, come il bullismo e l’invecchiamento attivo sul lavoro,
la partecipazione a progetti di welfare di comunità, incluso il sostegno ad
associazioni come l’AISM e la Fondazione Welfare Ambrosiano, e il mantenimento di
un sistema di partecipazione democratica alla gestione del nostro sodalizio.
Bastano questi due conti per stimare che almeno un quarto delle quote
associative versate sono destinate alla rigenerazione sociale: questo ci fa
ritenere che il modello della mutua che vuole competere sul piano delle
prestazioni con le assicurazioni sanitarie è non solo perdente in partenza sul
piano dell’efficienza e delle dimensioni, ma soprattutto suicida perché nega la
nostra intima natura anfibia.
In questa natura anfibia sta l’attualità delle SOMS, soggetti
sociali in quanto associazioni e al tempo stesso operatori economici, con una
duplice specializzazione dalla cui interazione possono nascere soluzioni
innovative di protezione sociale attraverso la ricostruzione e rigenerazione di
legami sociali: per trovarle e sperimentarle dobbiamo liberarci una volta per
tutte della nozione di “mutua” figlia della storia nel nostro stato sociale, intesa
come protezione anche deresponsabilizzante di cui profitar, e che ci viene
riproposta da assicurazioni e taluni esponenti imprenditoriali come modello per
il superamento del sistema sanitario nazionale universale.
Oggi si apre per noi un mondo di ricerca e sperimentazione,
secondo strategie diverse fra SMS grandi e piccole.
Per le piccole SMS il sociale è agire nel territorio lungo
due dimensioni: sul piano del welfare socio-sanitario vuol dire confrontarsi
con le associazioni che intercettano le diverse situazioni di vulnerabilità sociale e
di rischio per la salute, ma che non sempre e non necessariamente sono colte
dalle fonti ufficiali né interagiscono con le amministrazioni locali nel dare
risposta, recuperando “l’esperienza del bisogno inespresso” detenuta da chi
opera sul territorio, censendo e coinvolgendo quei soggetti – anche piccole
associazioni – che intercettano le diverse manifestazioni di bisogno sociale
con la loro sia pur modesta offerta, secondo l’insegnamento di Ivar Oddone, e
che possono avere nella SMS un coordinatore-collettore delle risorse in grado
di dare la giusta rilevanza ai diversi bisogni, liberando il welfare pubblico
dal potere delle minoranze urlanti. Ma le piccole SMS sono spesso anche
delle bellissime sedi storiche, sottoutilizzate, che possono offrire spazio di
ritrovo a quei professionisti indipendenti operanti nelle nuove e vecchie
professioni, a partire dagli avvocati, che per il modesto giro d’affari non
possono permettersi uno studio autonomo né ce la fanno a continuare a lavorare
sul tavolo della cucina di casa: potrebbero diventare luoghi di coworking
sociale, punti di aggregazione di competenze professionali specialistiche per
centri importanti ma non interessanti
per spazi profit, come Monselice, mentre darebbero linfa vitale a quei
piccoli paesi o frazioni che altrimenti verrebbero condannati alla
desertificazione sociale. Quest’ultimo aspetto appare al centro della
riflessione di uno studio in corso sul mutuo soccorso in Piemonte a cui Daniele
Viotti fa riferimento nel suo intervento.
Le grandi SMS, che intercettano comunque una frazione della
sanità integrativa, non possono certo agire come organizzatrici sul territorio,
ma offrire supporto valorizzando il proprio know-how gestionale favorendo
l’azione delle piccole, preesistenti o meno, che diverrebbero “mutue di
comunità”, attraverso l’istituto della mutualità mediata. Ma possono anche
agire a livello nazionale promuovendo attività mutualistiche non solo in
collaborazione con i fondi sanitari contrattuali, abbagliati dalle proposte
delle assicurazioni salvo poi ricredersi, in favore del lavoro dipendente, e
soprattutto in favore del lavoro disperso per il quale “protezione sociale” non
è tanto avere una prestazione sanitaria aggiuntiva, ma non dovere attendere
mesi prima di vedere i quattro soldi del proprio lavoro, non doversi sobbarcare
in prima persona l’espletamento delle pratiche amministrative e tributarie,
accedere accesso a opportunità di lavoro anche via banche dati di specialisti.
Ad esempio, in Belgio si è affermata SMART (Societè Mutuelle
des Artistes) che oggi opera come una grande cooperativa di servizi ai propri
soci nella sfera lavorativa, con oltre 120000 soci in 12 paesi europei fra cui
l’Italia, dove ha al momento circa 1300 soci: ma potrebbero trovare spazio
forme mutualistiche più mirate e vicine alla nostra tradizione socio-sanitaria,
come nell’area della maternità e della long-term care, combinando supporto
economico e aiuto personale.
Va aggiunto come perfino il mettere su famiglia e avere
figli sono diventati un rischio sociali di tipo catastrofico: il tasso di
separazioni e divorzi è talmente elevato che una separazione farebbe
precipitare una coppia in una situazione decorosa in due persone in povertà, la
nascita di un figlio compromette la carriera lavorativa della donna, specie se
è una lavoratrice indipendente, perché star fuori per sei mesi dal mercato del
lavoro e in modo discontinuo fino ai due anni del figlio comprometterebbe il
suo futuro lavorativo. Il fatto che le forme “naturali” di solidarietà, come la
famiglia, siano diventate un rischio, la dice lunga sul livello di
disgregazione sociale e individualismo a cui siamo giunti!
Se le grandi SMS possono proporsi come infrastruttura,
sono le piccole SMS, esistenti e a venire, che in un mondo così ricco di
declinazioni e specificità locali come l’Italia a giocare un ruolo decisivo per
il rilancio del mutuo soccorso. Un valore che ritornerà attuale se abbiamo
ancora a cuore la nostra dignità personale, soprattutto nei piccoli centri, dove
possono ritornare luoghi di condivisione, scambio, ricostruzione di una comunità
in una società popolata di solitudini. Non è una sfida semplice perché la
logica atomistica e individualistica dei mercati è penetrata dentro di noi in
profondità e in un tempo spaventosamente breve, esponendoci a ogni sorta di
insicurezze e riempendoci di paure man mano che svuotava le nostre identità. Ma
per la grandezza della sfida e l’ampiezza dei rischi per la salute e la dignità
umana, fra un ritorno a condizioni socio-lavorative servili di una società
neofeudale e l’aspirazione a una realizzazione professionale e sociale
promuovendo reinventando forme di aggregazione solidaristica, il mutuo soccorso
non può sottrarsi a dare il proprio contributo.